Fine vita: più trasparenza e garantire libertà di scelta

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Una delle finalità della proposta di legge di iniziativa popolare “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”, proposta da Associazione Coscioni, Radicali italiani, Uaar, Exit Italia, Amici di Eleonora onlus e Associazione radicale Certi Diritti, era ed è quella di rilanciare una riflessione sul fine vita. A Trieste questa strada si è intrapresa con determinazione e pacatezza, fin dalla serata di confronto che il comitato promotore della raccolta firme ha organizzato il 28 maggio con Cappato, Pocar e la video testimonianza di Margherita Hack. La riflessione sul fine vita è un affare del tutto individuale, un percorso che, pur arricchito dal dialogo con gli affetti, gli amici, i referenti spirituali, prevede una decisione solitaria, da affidare poi alle persone scelte per il delicato ruolo di fiduciari delle nostre Dat. Cosa significa questo prevalere, nelle decisioni sul nostro fine vita, della dimensione individuale? Significa che il concetto di dignità della persona è strettamente personale. Quello che oggi manca è il suo rispetto.

La Costituzione all’art.32 afferma che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” ma anche che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Prima, all’art.13, afferma che “la libertà personale è inviolabile”. Abbiamo dunque diritto, se riteniamo, di rifiutare le cure anche se questo determina la nostra morte. La Convenzione di Oviedo, nel suo essenziale art.2 “Primato dell’essere umano”, dice che “L’interesse e il bene dell’essere umano debbono prevalere sul solo interesse della società e della scienza”, senza stabilire chi sia l’interprete del suo interesse e del suo bene perché è lui, il singolo essere umano, il depositario della conoscenza di sé, delle proprie aspirazioni, del proprio bene. La Convenzione prevede l’obbligo assoluto per il medico a rispettare le volontà espresse dal paziente, personalmente o mediante un rappresentante.

Il codice deontologico dei medici all’art.38 riprende questi concetti “Il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa”. Più avanti l’art. 53 sul rifiuto consapevole di nutrirsi (che evidentemente il sen. Calabrò, medico, non ha letto) dice “il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale”. Tre fonti e un principio unificante: l’autodeterminazione della persona. Finché questa viene espressa con le Dat va quasi bene. Quando viene rivendicata per l’eutanasia, per qualcuno è troppo. Chi è stato in questi quattro mesi ai tavolini a raccogliere o ad autenticare firme sa bene che le persone firmano per “eutanasia legale” più che per le Dat: la Coscioni ha sollevato il velo dell’ipocrisia da una pratica che si svolge comunque in Italia. Due le questioni intorno all’eutanasia: è una richiesta che legittimamente può non essere condivisa da molti, ma non per questo non ha diritto di esistere. Una legge ha fatto uscire l’aborto dalla clandestinità, riconfermata da referendum, ma la sua esistenza non obbliga le donne ad abortire. L’altra è lasciare le cose come stanno: eutanasia praticata illegalmente facendo finta che non esista; questo non tutela le persone. Domani, con una legge chiara dai confini certi, potremo rispondere a richieste di eutanasia con trasparenza e possibilità di verifica.

Dove la legge esiste da un decennio (es: Olanda) con un’applicazione procedurale assai controllata e relazioni annuali, sappiamo che solo il 2% dei decessi avviene per eutanasia e che molte richieste non vengono poi soddisfatte per rinuncia dello stesso richiedente: una modalità per affrontare la propria morte con maggiore tranquillità. La morte, la nostra personalissima ed esclusiva morte, resta un evento individuale, per quante persone possiamo avere o non avere intorno a noi, a guardarci morire.

Rita Cian * associazione Luca Coscioni Trieste

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Una risposta

  1. admin ha detto:

    Questo l’intervento integrale:

    Fine vita: trasparenza e libertà di scelta

    Una delle finalità della proposta di legge di iniziativa popolare “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”, messa sulla pubblica piazza da Associazione Coscioni, Radicali Italiani, UAAR, Exit Italia, Amici di Eleonora onlus e Associazione Radicale Certi Diritti, era ed è quella di rilanciare, in tempi non dilaniati da dibattiti puramente ideologici (come quelli cui abbiamo dovuto assistere ai tempi di Eluana Englaro), una riflessione sul fine vita. A Trieste questa strada si è intrapresa con determinazione e pacatezza, fin dalla serata di confronto che il Comitato Promotore della raccolta firme ha offerto ai cittadini lo scorso 28 maggio al teatro Miela, con i contributi di Marco Cappato, Valerio Pocar e la video testimonianza di Margherita Hack.

    Forse qualcuno ha sottovalutato questa occasione e ha ritenuto di non parteciparvi. Peccato.
    La riflessione sul fine vita è un affare del tutto individuale, un percorso che, pur arricchito dal dialogo con gli affetti, con gli amici, con i referenti spirituali (ove si creda) prevede una decisione presa necessariamente in solitudine, per condividerla e affidarla poi alle persone che abbiamo scelto per ricoprire il delicato ruolo di fiduciari delle nostre DAT. Cosa significa questo prevalere, nelle decisioni sul nostro fine vita, della dimensione individuale? Significa essenzialmente che il concetto di dignità della persona, soprattutto in questa ultima fase della nostra vita, è strettamente personale.

    Da qui deriva la necessità, per tutti, di riconoscere che quello che manca oggi è il rispetto del concetto individuale di vita, concetto che è destinato a modificarsi man mano che, vivendo, ci trasformiamo, elaboriamo idee, le difendiamo e, soprattutto, le cambiamo quando non ci stanno più bene.
    La nostra Costituzione all’art.32 afferma che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” ma anche che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Prima, all’art.13, afferma che “la libertà personale è inviolabile”. Abbiamo dunque diritto, se riteniamo, di rifiutare le cure anche se questo determina la nostra morte.
    E la Convenzione di Oviedo, nel suo essenziale art.2 “Primato dell’essere umano”, dice che “L’interesse e il bene dell’essere umano debbono prevalere sul solo interesse della società e della scienza”, senza ovviamente stabilire chi sia l’interprete del suo interesse e del suo bene perché è lui, il singolo essere umano, a essere il depositario della conoscenza di sé, delle proprie aspirazioni, del proprio bene.

    Sempre la Convenzione di Oviedo, prevede l’obbligo assoluto per il medico a rispettare le volontà espresse dal paziente, sia personalmente che attraverso (nei casi previsti) un suo rappresentante. E il Codice Deontologico dei medici italiani, all’art.38, riprende questi concetti quando afferma “Il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa”. Più avanti, all’art. 53 (che evidentemente il sen. Calabrò, medico, non ha letto o non ricorda bene), rispetto al rifiuto consapevole di nutrirsi, dice che “il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale”.

    Tre fonti e un principio unificante: quello dell’autodeterminazione della persona.
    Finché questa viene espressa nelle DAT (che peraltro ancora in Italia non sono normate, chissà perché, forse perché non si trova l’accordo neanche su questo?) va quasi bene. Quando, in un altro momento, l’autodeterminazione viene rivendicata anche per l’eutanasia, per qualcuno è troppo.
    Chi è stato in questi quattro mesi ai tavolini a raccogliere o ad autenticare firme sa bene che le persone firmano per “eutanasia legale” più che per le DAT o testamento biologico che dir si voglia.
    Un pregio va riconosciuto all’Associazione Coscioni che ha portato in strada questa battaglia: quello di aver sollevato il velo dell’ipocrisia da una pratica, l’eutanasia, che si svolge comunque in Italia abbastanza frequentemente, in silenzio.

    Due sono le questioni intorno all’eutanasia. La prima è che si tratta di una richiesta che legittimamente può non essere condivisa da molti, ma non per questo non ha diritto a essere richiesta. Abbiamo lottato per una legge che facesse uscire l’aborto dalla clandestinità, l’abbiamo riconfermata con un referendum: ma la sua esistenza non obbliga le donne ad abortire.

    La seconda, più importante, è che lasciare le cose come stanno, con l’eutanasia praticata illegalmente e facendo finta che non ci sia, non si tutelano davvero le persone, mentre domani, con una legge chiara, con dei confini certi, potremo rispondere a richieste di uscita di scena anticipata con trasparenza e possibilità di verifica.
    Dove la legge esiste da più di dieci anni (Olanda, Belgio, Lussemburgo) con un’applicazione procedurale assai controllata, grazie alle relazioni annuali sappiamo che solo il 2% dei decessi avviene per eutanasia e che molte richieste non vengono poi soddisfatte per rinuncia dello stesso richiedente: non una corsa al precipizio, dunque, ma, per molte persone, una modalità per affrontare la propria morte con maggiore tranquillità. Richiedo l’eutanasia ma non sono obbligato poi a ottenerla, se riesco a sopportare con altri aiuti il mio dover morire.

    La proposta di legge, inoltre, prevede la depenalizzazione del suicidio assistito: qualcuno che ti fornisce i farmaci che tu assumerai autonomamente per morire. Neanche questo va bene? Preferiamo che malati terminali si defenestrino, come ha fatto Mario Monicelli? Perché tanta violenza?
    Una considerazione finale: siamo oppressi fin da bambini da messaggi incalzanti che esaltano la velocità, l’efficienza, la performanza quali valori che danno senso alla nostra vita.
    Poi, quasi a tutti, indirettamente o direttamente, accade di attraversare un periodo di non autosufficienza: uno dei più grandi stimoli a rivisitare le nostre idee rispetto alla nostra vita, nonché la vera grande paura per la maggioranza degli italiani (stando alle ricerche condotte), perché abbiamo più paura di dipendere dagli altri che di morire.

    La solidarietà che una comunità esprime può avere molte facce positive, statuali, amicali e di volontariato, e guai a non averne. Ma vogliamo dire che, nonostante l’impegno quotidiano che molti di noi compiono per migliorare la vita di chi ci sta vicino, quello che vediamo sono, alle volte, abissi di solitudine impossibili da colmare in una società come l’attuale. E vogliamo infine sia riconosciuto (non dico accettato, ma almeno riconosciuto) che, nonostante importanti vicinanze affettive, qualcuno possa scegliere di andarsene comunque, secondo una sua personale valutazione. La morte, la nostra personalissima ed esclusiva morte, resta un evento individuale, per quante persone possiamo avere o non avere intorno a noi, a guardarci morire.

    Rita Cian
    Associazione Luca Coscioni Trieste

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