I problemi italiani risiedono prima di tutto in Italia, Europa o no.

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di Nicolò Gnocato

Nel suo ultimo libro “Europa o no – sogno da realizzare o incubo da cui uscire”, Luigi Zingales, noto economista della Chicago Booth School of business, analizza costi e benefici che l’ingresso in Europa e nell’Euro ha comportato per l’Italia.

Il tutto viene discusso con l’utilizzo di efficaci metafore, che rendono accessibili concetti economici anche ai profani della materia: l’Italia, ad esempio, si è legata all’Euro come Ulisse si legò all’albero maestro della propria nave per evitare i richiami delle sirene. Nel nostro caso, “le sirene” sono rappresentate dalle svalutazioni monetarie continue, e “l’albero maestro” da una moneta stabile quale l’Euro. Uno dei benefici è stato portato dal crollo dei costi di rifinanziamento del debito pubblico (dei quali il famigerato spread è un indicatore); questi risparmi, se non fossero stati tramutati in spesa corrente da scellerate politiche di governo durante i primi anni di permanenza nella moneta unica, avrebbero consentito un abbattimento del debito pubblico, allineandolo ai livelli tedeschi nel 2007; cosa che avrebbe permesso di affrontare la tempesta della crisi con meno zavorra.

D’altra parte, ci ha privato dello strumento della svalutazione competitiva; strumento che però era stato male utilizzato negli anni ’70 e primi ’80 dall’Italia. Anche qui il paragone di Zingales è molto suggestivo: se utilizzata oculatamente, come ha fatto l’Inghilterra, la svalutazione competitiva può costituire un utile strumento di aggiustamento verso il basso dei salari in situazioni avverse del ciclo economico, consentendo prezzi più competitivi per i prodotti, che si traducono in aumento dell’export e un conseguente assorbimento più efficace di crisi cicliche; era però diventata una droga anziché un anestetico nelle mani italiane: le continue svalutazioni negli anni ’70 e ’80, pur avendo consentito alle imprese di continuare a vendere i propri prodotti competendo sul prezzo, portarono l’inflazione a doppia cifra, così come i tassi di interesse sul credito alle imprese, scoraggiandole ad investire per modernizzarsi e competere di conseguenza sulla qualità del prodotto, più che sul suo prezzo.

La crisi dell’Italia non è ciclica, bensì strutturale: non è conseguenza dell’ingresso nell’Euro, né l’uscita dall’euro risolverebbe di colpo tutti i nostri problemi, come molti vorrebbero far credere agli italiani in questa surreale campagna elettorale per le elezioni europee.

La crisi dell’Italia risiede piuttosto nella mancata modernizzazione del paese, che dal punto di vista economico può essere tradotta come mancata crescita della produttività totale dei fattori.

zingalesDelle molte cause che hanno contribuito a tale crisi di produttività, Zingales ipotizza in particolar modo due responsabili:

La riluttanza che hanno manifestato le imprese italiane nell’investire sulle nuove tecnologie portate dalla rivoluzione informatica.

Il fatto che le banche siano state, e continuino ad essere, in larga parte in mano alla politica per mezzo delle fondazioni. Cosa che ha condotto ad una discrezionalità nell’allocazione del credito verso aziende esistenti (per non dire degli amici), a scapito di idee nuove e potenzialmente innovative (e c’era chi già lo aveva affermato, oltre a Zingales).

Il dibattito su Europa o no, potrebbe essere dunque riformulato così: vogliamo procedere con fatica nella strada più difficile, quella della modernizzazione del paese, per allinearci agli altri paesi avanzati, facendo i necessari sacrifici nel breve termine?

Preferiamo piuttosto prendere rischi incalcolabili, rifiutando la sfida della modernizzazione, per competere sul prezzo col paese emergente di turno (l’altro ieri la Cina, ieri il Brasile, oggi l’Indonesia, domani il Burkina Faso)? O, ancora peggio, vogliamo finire sulla strada del nazionalismo e dell’autarchia, facendo inevitabilmente la fine dell’Argentina?

A voi la scelta, Europa o no.

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